È possibile dare alla persona che chiede supporto psicologico ciò di cui ha bisogno, nel momento in cui ne ha bisogno?
Ci confrontiamo con una società e delle persone molto cambiate rispetto a soli pochi anni fa. In un articolo precedente (Il futuro della psicoterapia) riportavo alcuni dati sui trend e le prospettive del sistema sanitario, in particolare nell’ambito della salute mentale.
Come deve modificarsi, di conseguenza, l’impostazione dello psicologo, per poter continuare a raggiungere e aiutare le persone?
Nicholas Cummings e la psicoterapia intermittente
Fin dalla metà degli anni ’80, il past-president dell’American Psychologycal Association, Nicholas Cummings, sintetizzò il concetto di “terapia intermittente” o “terapia lungo il ciclo di vita”. Nel 1988 diceva: “Lo psicologo […] non ha solo l’obiettivo di aiutare il paziente a risolvere i disturbi emotivi, ma anche di aiutarlo a prevenire le malattie (sia fisiche che mentali) inducendolo a cambiare stile di vita” (Cummings, 1988, p. 169).
L’idea era quella di uno psicologo simile al medico di base, a cui la persona potesse rivolgersi nel momento del bisogno. A distanza di oltre tre decadi, in Italia questa idea non è stata ancora recepita. E non parlo tanto di una figura istituzionalizzata e riconosciuta (“lo psicologo di base”), quanto di un servizio: dare la possibilità alle persone di venire per un numero limitato di incontri, anche soltanto uno, quando ne sentono il bisogno, per lavorare su ciò di cui sentono avere bisogno in quel momento.
Perché, sì, le persone hanno dei bisogni.
Bisogni: Terapeuta vs Paziente
Un mio collega era solito dire: “Un tempo c’era Dio, e subito dopo il dottore”, per ricordare i tempi in cui la parola del medico era indiscutibile. Quei tempi sono passati. Oggi il paziente si è “trasformato” in cliente, nel senso di persona che sceglie un servizio, e che vuole partecipare attivamente a esso (IBM, 2008).
Quando non gli si permette di fare questo, i rischi sono almeno 3:
- Si riduce la compliance o, se preferiamo, si aumenta la resistenza al trattamento. La società odierna non è quella di inizio ‘900. Allo stesso modo, le persone che la compongono non sono le stesse. Oggi coesistono un’auto-consapevolezza e un senso di partecipazione alle cure maggiori. Negare questa possibilità rischia di inficiare il lavoro con molte persone, che si sentiranno escluse dal processo terapeutico e tenderanno a collaborare meno e peggio, o ad abbandonarlo prematuramente.
- Si forza la persona in un processo che potrebbe non fare per lei. Questo vale per diversi aspetti del processo: dall’utilizzo di tecniche inadeguate per lei (sebbene efficaci per il “disturbo”) alla rigida adesione a protocolli d’intervento per forza di cose limitati. Si chiederà, dunque, di fare qualcosa che la persona, semplicemente, non può o non è in grado di fare, con ovvi effetti sul processo terapeutico. Non è un caso che in questi anni si stia tenendo più in considerazione il punto di vista della persona nel processo di valutazione di cause del problema, soluzioni possibili, e andamento della terapia (Duncan & Miller, 2000).
- Si allontana la persona dalla possibilità di rivolgersi a noi (magari inducendola a rivolgersi ad altre figure professionali meno qualificate). Questo è dovuto anche dalla forma in cui proponiamo alla persona la consulenza o la psicoterapia. Se la nostra non si accorda a ciò che si aspetta, desidera, o di cui ha formalmente bisogno la persona, questa semplicemente andrà da qualcun’altro che gliela offre in quel modo. Pensare che “ma noi gli diamo la psicoterapia/consulenza psicologica, gli altri no” è un ragionamento logico, ma parte da premesse sbagliate: credere che la persona voglia una “psicoterapia” o una “consulenza psicologica”. La persona vuole stare meglio, niente di più.
Per evitare questi rischi dobbiamo far sì che la proposta dei servizi che offriamo (consulenza, psicoterapia ecc.) non si scontri con i bisogni della persona. Una taglia unica non va bene per tutti. Se ciò è stato spesso recepito come “usare l’approccio terapeutico più adatto a quella persona/disturbo”, stranamente non è stato altrettanto recepito come “adattare le modalità con cui si opera a quella persona/disturbo”.
Abbagliati dai costrutti
Un’impressione è che spesso il pensiero sia che “abbiamo sempre fatto così”, con il sottinteso che “così” ha sempre funzionato. Il che, sicuramente, è vero. Il problema è che bisogna anche domandarsi “quando” ha funzionato.
Come detto, oggi non è uguale a ieri. Metodi e forme di intervento che andavano bene decenni fa oggi potrebbero rivelarsi inadeguate, superate dal progresso delle scienze, dalle nuove scoperte, ma anche da stili di vita diversi, dall’emersione di nuove problematiche, nonché da una nuova evoluzione di quelle “vecchie”.
L’idea che “così” possa continuare a funzionare, oltre a essere controintuitiva, rischia di essere un duplice abbaglio. Un abbaglio rispetto a ciò che accade realmente “là fuori” (persone che smettono di, o neanche iniziano a, rivolgersi allo psicologo – in questo esempio specifico – perché vissuto/ritenuto inadeguato al proprio bisogno attuale), e un abbaglio rispetto alla realtà di quel “così”.
“Così” non è un realtà oggettiva immutabile. Quando diciamo che “così” ha sempre funzionato, come l’idea che un percorso terapeutico fatto di più incontri sia la condizione necessaria per produrre un cambiamento significativo e durevole, stiamo dimenticando che quel “così” è un costrutto. Non c’è niente nel “cambiamento” che gli impedisca di essere prodotto in meno tempo. Non c’è niente nella “terapia” che le impedisca di avere questo status e di manifestare la sua efficacia al di fuori di una formula che la concepisce come “percorso fatto di più (magari tanti) incontri”. A conti fatti, in realtà, non c’è “la terapia”: ci sono una serie di azioni fatte seguendo determinate logiche – sempre suscettibili di falsificabilità.
In altre parole, rischiamo troppo facilmente di dimenticarci che la maggior parte delle metodologie con cui lavoriamo sono basate su costrutti, su teorie, che se pure, nel migliore dei casi, sono state messe duramente alla prova del metodo scientifico, stanno solo aspettando che nuove e migliori teorie le mettano in discussione. Pensare che siano realtà ontologiche che vivono al di fuori delle impalcature teoriche su cui si reggono o, peggio, che siano realtà fattuali e immutabili, è un grande limite che poniamo a noi stessi.
L’idea che “così” debba essere obbligatoriamente… così, è semplicemente un errore.
Psicoterapia e consulenza psicologica al bisogno
Se nel mondo stanno proliferando le walk-in clinic (leggi questo articolo) e le Single Session Clinic, è perché si è trovata una forma che si adegua ai nuovi bisogni delle persone. E la frase iniziale di Cummings non faccia pensare che la psicoterapia a intermittenza possa essere adeguata solo in termini preventivi, o esclusivamente per problemi più semplici (lo stesso Cummings approfondì questo aspetto, mostrandone l’utilità con problemi e disturbi noti – Cummings & Sayama, 1995).
Fornire un servizio psicologico al bisogno si può declinare in tanti modi, alcuni già visti in queste pagine (si vedano ad esempio i due articoli precedenti a questo). In generale, ci si apre alla possibilità di vedere la persona nel momento del bisogno, per raggiungere l’obiettivo di cui ha bisogno, nel tempo di cui ha bisogno. Anche un’unica seduta – ma non necessariamente, sia chiaro.
Naturalmente è ovvio che il professionista deve, di sua spontanea volontà, cominciare a vedersi in modo diverso, soprattutto come capace di proporre in nuovi modi e in nuove forme ciò che ha appreso. Questo senza trascurare, però, le evidenze scientifiche (altrimenti sconfineremmo in una “folle creatività”, riformulando un concetto di Gregory Bateson). Anzi, spesso ciò che deve fare è proprio il contrario: aprirsi maggiormente a diversi saperi scientifici, evitando di rimanere bloccato all’interno dei confini definiti da un approccio o da una teoria preferite.
Ad esempio, tutto questo è ancora più facile da concepire se ampliamo il nostro ruolo e il modo in cui possiamo essere utili alle persone.
4 cose che puoi fare come terapeuta
Per esempio, l’idea che il terapeuta debba “risolvere” i problemi è giusta, ma limitata. Naturalmente, ancor prima lo è l’idea che in pochi incontri, anche uno solo, non si possa risolvere alcunché: si scontra persino con ciò che ci dice la ricerca scientifica (ad esempio, si vedano gli studi di Westmacott & Hunsley, 2010, o di Simon, Imel, Ludman & Steinfeld, 2012, sul perché le persone abbandonano la terapia prematuramente, anche dopo pochissime sedute: la maggior parte di esse lo fa perché ritiene di non aver bisogno di altri incontri).
Tuttavia, qui voglio sottolineare che il terapeuta può avere diversi obiettivi e proporre diverse possibilità alle persone. Per fare alcuni esempi:
- Una di queste è senz’altro aiutarle a risolvere un problema, cioè permetterle di essere in grado di far sì che il problema non sia più tale e che non ritorni. Per chi se lo sta chiedendo, ciò può essere stabilito anche nei casi in cui si è fatta una singola seduta nel momento in cui ci si dà la possibilità, successivamente, di fare un breve follow up, per verificare assieme che quanto fatto in quell’incontro sia stato risolutivo. E, accanto a questo, lasciando la porta aperta (appunto un servizio “al bisogno”), così che se dovesse essere necessario la persona potrà sentirsi libera di tornare.
- Una seconda possibilità è quella di aiutare la persona ad avviare il processo di cambiamento. Non tutti sentono di aver bisogno di essere accompagni fino alla risoluzione finale del problema. C’è chi ritiene di aver semplicemente bisogno di un avvio, di uno sblocco, di un calcio d’inizio, per poi continuare da solo il lavoro – magari sempre con la consapevolezza di poter tornare in futuro (questa è decisamente l’anima della terapia al bisogno).
- La terza è la possibilità di aiutare a comprendere, cioè aiutare la persona a farsi un’idea, ad avere una nuova o ulteriore chiave di lettura, a ristrutturare il significato di una situazione, o anche semplicemente a confrontarsi con un “esperto” per avere la sua opinione. Molte persone spesso vogliono solo essere aiutate a “capire meglio” e ritengo che comunicargli che possono rivolgersi un terapeuta anche “solo” per questo le tranquillizza e ne facilita l’accesso ai nostri servizi.
- La quarta, che non è sicuramente l’ultima, è la possibilità di accogliere e contenere, di dare uno spazio in cui poter avvalersi del potere della catarsi, per così dire, che seppure molte volte non è risolutivo, spesso è proprio ciò di cui sente bisogno una persona di fronte a determinate situazioni: il bisogno di avere uno spazio in cui, con l’aiuto di un professionista che sappia rendere tale spazio adeguato, possa sentirsi libera di esprimere tutti i suoi vissuti ed emozioni. Senza chiedere nulla di più di questo.
Queste possibilità riflettono esattamente alcuni bisogni delle persone. Possiamo ritenere che ci sia di più, che non basti, che serva “altro”… Rimarrà il fatto che, da un lato, non è ciò che la persona sente e che, dall’altro, incredibilmente ci/la stiamo privando di un servizio che noi siamo in grado di dare probabilmente meglio di chiunque altro.
Cambiare per non essere cambiati
Lo psicologo e lo psicoterapeuta, e in generale tutte le figure sanitarie, possono pensare che non hanno bisogno di cambiare, di andare incontro ai bisogni delle persone. Possono pensare che questi bisogni siano dovuti a condizioni cliniche, a motivazioni inconsce, a resistenze al cambiamento, a giochi di potere relazionali o quant’altro. Possono, cioè, avallare il proprio “così”, confermare la teoria con se stessa. E possono ritenere che siano le persone a doversi adattare ai propri metodi.
Altri, però, possono pensare che viviamo in una società che, da sempre, cambia. Che, in un processo circolare, assieme ad essa anche persone e bisogni cambiano. Che, di conseguenza, cambiano anche i loro stili di vita, le loro abitudini, i loro comportamenti. E che, pur preservando i nostri valori, se non cambiamo anche noi verremo cambiati da loro, semplicemente sostituiti con altro che più risponde ai loro bisogni.
Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Founder dell’Italian Center
for Single Session Therapy
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Bibliografia
Cummings, N. (1988). Brief Intermittent Psychotherapy throughout the life cycle. In J. K. Zeig & S. G. Gilligan. Brief Therapy. Myths, methods and metaphors, pp. 169-184. New York: Brunner/Mazel.
Cummings, N. & Sayama, M. (1995). Focused Psychotherapy. A casebook of brief, intermittent psychotherapy throughout the life cycle. Abingdon: Routledge.
Duncan, B. & Miller, S. (2000). The client’s theory of change: Consulting the client in the integrative process. Journal of Psychotherapy Integration, 10(2), 169-187.
IBM Global Business Services (2008). La sanità e l’assistenza sanitaria nel 2015. (online).
Simon, G. E., Imel, Z. E., Ludman, E. J. & Steinfeld, B. J. (2012). Is dropout after a first psychotherapy visit always a bad outcome? Psychiatric Services, 63(7), 705.
Westmacott, R. & Hunsley, J. (2010). Reasons for terminating psychotherapy: a general population study. Journal of Clinical Psychology, 66(9), 65-77. doi: 10.1002/jclp.20702