Metti in riga su un foglio i numeri da 1 a quanto vuoi tu – diciamo da 1 a 50, per comodità.
Ora prendi tutte le terapie fatte da un determinato professionista. Segna una X sotto il numero corrispondente a quante sedute è durata ciascuna terapia, indipendentemente dal suo risultato.
Alla fine otterrai quasi sempre lo stesso risultato: la maggior parte delle X saranno sotto il numero 1.
Questo dato (che in statistica si chiama “moda”), ci spiega che la maggior parte delle terapie dura un’unica seduta. Fu questa la prima scoperta nell’ambito delle Terapie a Seduta Singola. Con delle implicazioni davvero interessanti.
Una scoperta casuale
Era il 1986 e Moshe Talmon lavorava come psicoterapeuta nel reparto di Psichiatria del Kaiser Permanente Medical Center di Hayward, California, una delle più grandi organizzazioni sanitarie degli Stati Uniti.
Mentre si trovava nell’ufficio del responsabile del servizio, Norman Weinstein, gli cadde lo sguardo su un pacco di tabulati con su scritto “Numero di visite per paziente negli ultimi 12 mesi”.
Talmon chiese a Weinstein di poterli studiare e questi acconsentì. Riportavano i dati degli ultimi anni, sull’attività di una trentina di psichiatri, psicologi e operatori sociali. E i risultati erano sempre gli stessi: la durata più frequente della terapia era di una sola seduta.
Quasi per caso, Talmon scoprì che 1 è il numero più frequente di sedute fatte in psicoterapia.
Il contesto non conta
In seguito l’autore studiò oltre 100.000 appuntamenti lungo un periodo di cinque anni (1983-1988) e il risultato fu sempre lo stesso. Inoltre, nel corso degli anni successivi, diversi altri studi avrebbero confermato ulteriormente questo dato, arrivando a stabilire che un’unica seduta si ha dal 20 al 50% dei casi e, quando il terapeuta è consapevole di questa scelta, si può arrivare fino all’80% di terapie da un’unica seduta (Talmon, 1990; Hoyt & Talmon, 2014).
Una domanda sorgeva spontanea: che influenza ha il contesto?
Ci si potrebbe aspettare che un cliente che sceglie un libero professionista, magari pagando anche una cifra ragguardevole, sia più propenso a “rimanere” in terapia rispetto a uno che approcci a un servizio pubblico, o a un servizio gratuito. In realtà no: non c’è nessuna differenza. E, come spiegherò più avanti, il concetto sbagliato è quello di concepire questa scelta in termini di “rimanere o non rimanere” in terapia.
Rispetto all’assenza di differenze a prescindere dal contesto, Bloom (1975) esaminò la frequenza di sedute singole tra i sistemi pubblico e privato negli Stati Uniti, trovandola pressoché identica. Questo dato fu confermato anche da Koss (1979), che su un campione di pazienti privati notò un tasso di abbandono dopo un’unica seduta pari a quello del servizio pubblico.
Altri studi iniziali sono stati condotti in servizi per la famiglia (Kogan, 1957a, 1957b, 1957c), in cliniche psichiatriche private (Spoerl, 1975), in servizi di salute mentale pubblici e privati (Bloom, 1975): il risultato fu sempre lo stesso.
Una scelta consapevole
A questo punto, ci si potrebbe domandare come mai dal 20 al 50% dei pazienti sceglie di venire un’unica volta.
Alcuni direbbero che il terapeuta non è stato in grado di creare una relazione adeguata, che il paziente era altamente resistente, che non aveva abbastanza motivazione, che il costo delle sedute andava oltre le sue aspettative, o che il tipo di disturbo era eccessivamente invalidante.
Tutto vero. Ma non c’è solo questo.
Infatti, nella prima analisi degli apparenti abbandoni in prima seduta fatta al Kaiser Permanente, venne scoperto che il 30% di tutti i pazienti sceglieva volontariamente di venire una sola volta, anche se gli veniva offerto un ulteriore appuntamento (Talmon, 1990).
Successivamente, per confermare tale dato, Talmon chiamò 200 pazienti che aveva visto per una sola seduta per capire perché avessero scelto di non continuare: ebbe un tuffo al cuore quando il 78% di essi dichiarò che aveva trovato quell’unica seduta sufficiente, sentendosi “meglio” o “molto meglio”; solo al 10% non era piaciuto il terapeuta o la terapia. Un campione di pazienti, inoltre, fu chiamato da un ricercatore esterno, così da ridurre al minimo il condizionamento che avrebbe potuto esserci nei confronti dei propri pazienti.
Questo era in linea con quanto già riscontrato da altri autori (Bloom, 1975), nonché da studi successivi. Quando Hoyt, Rosenbaum e Talmon condussero il primo studio sistematico sulla Terapia a Seduta Singola, con un campione statisticamente significativo ai fini di una ricerca pilota (infatti già Bloom aveva condotto uno studio simile, ma con soli 10 pazienti e in modo meno strutturato), il 58% di essi ritenne sufficiente quell’unica seduta (1992).
E se vogliamo prendere in considerazione campioni notevolmente più ampi, Weir, Wills, Young & Perlesz (2008) hanno trovato che oltre 40’000, pazienti su un totale di 100’000, hanno ritenuto sufficiente un’unica seduta per risolvere il proprio problema, anche quando gli è stata data possibilità di continuare.
Silverman e Beech (1979), riscontrando dai loro studi che l’80% dei clienti di una terapia singola si dichiaravano soddisfatti, affermarono che «l’idea che i drop-out rappresentino un fallimento del cliente o del sistema di intervento è chiaramente insostenibile.»
Ce n’è per tutti i disturbi
Un’altra domanda che ci si potrebbe porre è: “Quali pazienti beneficiano di una Terapia a Seduta Singola?”
Si potrebbe infatti pensare che solo casi lievi possano trarre beneficio da un solo incontro terapeutico.
Su questo punto tornerò in un altro articolo, poiché le considerazioni da fare sono davvero molte, come ad esempio il fatto che i casi con problematiche di lieve entità sono un numero considerevole (se non il più considerevole di tutti) e che moltissime persone non si rivolgono ai servizi e ai professionisti della salute mentale perché pensano che il loro problema, che comunque lì affligge, sia troppo “leggero” per un trattamento – o, più spesso, pensano che il trattamento previsto (mesi di terapia) sia eccessivo.
Per ora possiamo accontentarci di sapere che il primo studio di Hoyt, Rosenbaum e Talmon (1992) considerò pazienti con problemi quali:
- depressione
- insonnia
- attacchi di panico
- normali reazioni d’ansia per le quali il soggetto cercava rassicurazioni
- reazione di adattamento al divorzio
- violenza familiare
e altri ancora, con consultazioni individuali, di coppia e familiari, a persone di diverso sesso, età ed etnia. Gli studi successivi confermano questi dati su cui tornerò in altri articoli (si veda anche la rassegna in Hoyt & Talmon, 2014)
Sebbene la Terapia a Seduta Singola non è per tutti (nel senso che non tutte le persone possono beneficiare di un solo incontro, e questo rimane indiscutibile), è stato ampiamente dimostrato che è per tutto, nel senso che la quasi totalità delle problematiche, persino quelle più gravi e invalidanti, ha possibilità di essere trattata in un’unica seduta.
Un’eccezione la fanno problemi con basi neurologiche e poco altro (come spiegherò nell’articolo dedicato a questo tema), ma ciò che hanno da sempre sottolineato gli autori è che non bisogna avere un atteggiamento del tipo “Questo problema è troppo grave per essere trattato con una Terapia a Seduta Singola”, ma un atteggiamento del tipo “Questa persona potrebbe non essere adatta a una Terapia a Seduta Singola”.
Conclusioni
Sia prima che si iniziasse a studiare sistematicamente la TSS, sia con gli studi successivi sempre più rigorosi e focalizzati, sono stati individuati alcuni punti nodali:
- 1 è il numero più frequente di sedute in psicoterapia
- ciò sembra essere valido in qualunque contesto di cura, pubblico e privato, più o meno strutturato
- tra il 20 e il 50% delle volte è il paziente stesso a non ritenere necessaria un’altra seduta,
- fino all’80% di chi ha ricevuto una Seduta Singola dichiara di aver risolto il proprio problema, o comunque di ritenerlo molto migliorato
- i benefici di quell’unica seduta vengono raggiunti a prescindere dalla diagnosi, considerando che una TSS può essere adatta a trattare qualunque problema, sebbene non sia adatta per chiunque
Questi punti aprono scenari interessanti sul campo, di cui ho parlato nell’EBook gratuito (scaricabile qui) e che approfondirò nel corso dei prossimi articoli.
Se vuoi saperne di più sulla Terapia a Seduta Singola e approfondire il metodo, puoi leggere il nostro link (clicca qui) “Terapia a seduta singola. Principi e pratiche” o partecipare a uno dei nostri workshop (clicca qui).
Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Founder dell’Italian Center
for Single Session Therapy
Se vuoi saperne di più sulla Terapia a Seduta Singola e approfondire il metodo, puoi leggere il nostro link (clicca qui) “Terapia a seduta singola. Principi e pratiche” o partecipare a uno dei nostri workshop (clicca qui).
Riferimenti bibliografici
Bloom, B. L. (1975). Changing patterns of psychiatric care. New York: Guilford Press.
Hoyt, M. F., Rosenbaum, R. L. & Talmon, M. (1992). Planned single-session psychotherapy. In S.H. Budman, M.F. Hoyt & S. Friedman (eds.), The First Session in Brief Therapy (pp. 59-86). New York: Guilford Press.
Hoyt, M. F. & Talmon, M. (2014). Capturing the Moment. Bancyfelin, UK: Crown House (Tr. it. in pubblicazione).
Kogan, L. S. (1957a). The short-term case in a family agency. Part I. The study plan. In Social Casework, vol. 38, 231-238.
Kogan, L. S. (1957b). The short-term case in a family agency. Part II. Results of study. In Social Casework, vol. 38, 296-302.
Kogan, L. S. (1957a). The short-term case in a family agency. Part III. Further results and conclusions. In Social Casework, vol. 38, 366-374.
Koss, M. P. (1979). Lenght of psychotherapy for clients seen in private practice. In Journal of Consulting and Clinical Psychology, vol. 47, 210-212.
Silverman, W. H. & Beech, R. P. (1979). Are dropouts, dropouts? In Journal of Community Psychology, vol. 7, 236-242.
Spoerl, O. H. (1975). Single session psychotherapy. In Diseases of the Nervous System, vol. 36, 283-285.
Talmon, M. (1990). Single-Session Therapy. San Francisco: Jossey Bass (Tr. it. Psicoterapia a seduta singola. Trento: Erickson, 1996).
Weir, S., Wills, M., Young, J. & Perlesz, A. (2008). The implementation of Single Session Work in community healt. Brunswick, Australia: The Bouverie Centre, La Trobe University.
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